A Trieste… io c’ero!

MAGAZZINO 18
L’Esodo di italiani cancellati dalla Storia

ovvero
L’undicesimo comandamento: non dimenticare.

S’alza il sipario sullo spettacolo di Simone Cristicchi: finalmente debutta Magazzino 18, la rappresentazione teatrale sul dramma dell’esodo istriano – giuliano – dalmata, argomento delicato e spinoso che ormai per sessant’anni è stato monopolio di argomentazioni politiche, per lo più sconosciuto o misconosciuto dalla maggioranza degli italiani.
Uno spettacolo preceduto da enormi polemiche, inutili e sterili, politica da quartiere che ha cercato di strumentalizzare nel suo piccolo l’operato di un artista come la Politica con la maiuscola ha per anni strumentalizzato la vicenda degli esuli, preceduto da feroci accuse di appartenenza alla tale o tal altra bandiera condite con insulti gratuiti, da critiche a prescindere solo perché trattava di esodo e di foibe.

Persichetti

Ma s’alza il sipario, Magazzino 18 va in scena, ed abbiamo un filmato che ci introduce nel vero Magazzino 18, giusto il tempo di una rapida occhiata, ed introduce anche Persichetti, professione archivista: la sua voce fuoricampo rassicura il suo superiore al Ministero, è arrivato, inizia subito a lavorare, ché “Persichetti archivia tutto, pure i pidocchi”.
Svaniscono le immagini, si svela la scenografia e Simone entra in scena: il suo Persichetti è un funzionario rigoroso, di quelli che “i numeri, dove li metti stanno”, un po’ servile, specchio dell’italiano italiota che dapprima di scherna e poi si scherma della propria beata ignoranza, venuto ad archiviare le masserizie degli esuli convinto di trovare semplici oggetti come in un enorme trasloco e che si trova invece a dover fare i conti, i suoi amati conti che per una volta non tornano, con lo Spirito di quelle masserizie e le storie che quegli oggetti racchiudono e custodiscono, perché il Magazzino 18 non è un deposito di mobili, ma un deposito di vite.
Gli oggetti diventeranno soggetti
.

Basta poco a Cristicchi per diventare un altro personaggio: tolto l’impermeabile cammello dell’impiegato, un minimo cambio di registro vocale ed è lo Spirito delle Masserizie, custode dei segreti di quegli oggetti e di quelle vite.
Con poche parole, brevi frasi incisive, ci mostra come il contenuto di migliaia di case sia arrivata in quel magazzino, riassume anni ed anni di storia in una manciata di minuti senza tralasciare nulla di tutto quel che ha portato alla tragica scelta che ha segnato la vita di più di trecentomila persone: l’esodo.

Mag18

Il primo grosso applauso arriva a metà del primo brano, “Il cimitero degli oggetti”, quasi con urgenza: come se il pubblico triestino si fosse immediatamente identificato in quelle esistenze scampate alla bora ed avesse riconosciuto come propri quei fantasmi che, anche se danno fastidio a qualcuno, ormai non fanno paura a nessuno… ed è proprio così: l’identificazione è totale ed immediata, ogni singola persona presente in sala ha il proprio fantasma, ogni famiglia è scampata alla bora o è legata a qualcuno che l’ha fatto.

Arriva il momento “incriminato”, si parla di eccidi fascisti, dell’Hotel Balkan, del campo d’internamento di Arbe.
Sullo sfondo entra una bambina, con in mano una valigia.
Ha il passo lento, misurato, diresti quasi timoroso ma no, non è il termine esatto: c’è dignità, c’è dolore, c’è rassegnazione, in quel passo.
Arrivata al centro della scena si volge verso il pubblico e racconta dell’internamento ad Arbe, del morir di fame, di sete. Del veder ridurre a morti viventi tutti, anche la sorella, del venir a sapere della morte del padre, del riuscire a tornare a casa e non trovar più una casa, e non aver più un padre che possa ricostruirla.
Poi esce di scena lentamente, dignitosamente, dolorosamente, con rassegnazione.
L’ha raccontato in sloveno, abbiamo letto le sue parole in italiano dietro di lei, più grandi di lei.
Troppo più grandi di lei, per restare attaccati alle futili diatribe da cortile che non l’avrebbero voluta nello spettacolo. Troppo più grandi di lei per non emozionarsi e renderle il giusto tributo: gli occhi lucidi hanno iniziato a lasciar scivolare qualche lacrima, ed anche chi era entrato preparato alla protesta non ha potuto far altro che applaudire.

Il terzo applauso a scena aperta, a cui seguiranno molti altri, scoppia con fragore alla frase “Ecco perché quella che nel resto d’Italia viene festeggiata come la “Liberazione”, in questa parte d’Italia prende le sembianze di una vera e propria occupazione!” ed è talmente forte da coprire le successive frasi dello Spirito delle Masserizie per un paio di minuti: questo è il momento in cui si sgretolano tutti i pregiudizi che avevano accompagnato la presentazione dello spettacolo, tutte le polemiche montate attorno, tutte le sciocchezze dette a priori. È il momento in cui anche il più prevenuto tra i presenti s’accorge che prevenuto non è, quel foresto venuto da Roma per raccontare proprio a loro la loro storia, e che lo sta facendo in piena cognizione di causa.
Forse qualcuno prova vergogna, che sia dovuto arrivare questo cantattore da una realtà così distante da quella della propria terra con il coraggio di svegliare questi fantasmi sopiti, di affrontare a viso aperto tutte le critiche piovutegli addosso da destra e da sinistra pur di raccontare una storia che era “una pagina strappata dal grande libro della Storia” e che l’ha fatto senza dogmi, senza prendere le parti di nessuno se non quelle di chi questa storia l’ha vissuta e subita ed è rimasto per più di sessant’anni senza la possibilità di far sentire la propria voce.

Da questo momento in poi è un crescendo.
Lo spettatore si ritroverà a fare i conti con la parte più emotiva di sé stesso, indipendentemente dalle sue origini e dai suoi legami col territorio, perché questo è il momento in cui lo Spirito delle Masserizie evoca altri spiriti, quelli di coloro che possedevano quegli oggetti, e le storie nella storia nella Storia (come una matrioska, dirà il Persichetti che archivia tutto, pure l’impicci) si srotolano una per una e si annodano tra loro. Commozione ed emozioni si alternano visibilmente sui volti dei presenti, più generazioni unite dagli stessi sentimenti e dalle stesse lacrime.

Dentro la buca

Il brano “Dentro la buca” è un coltello nel cuore, l’esecuzione con il coro dei bambini dello StarTs Lab è di forte impatto emotivo: la canzone solleva il velo dell’argomento foibe con sensibilità e nel contempo semplicità, senza andare a ricercare colpe né giustificazioni, e ci porta alla presenza di Domenico, infoibato a 27 anni, prelevato “per una formalità” come tutti quelli sul camion, del resto…
Staffetta del Regio esercito in licenza premio, finirà in una delle 1700 foibe del Carso come Norma.
La sua amica Norma.
Una delle migliori prove d’attore mai viste fare a Simone è il racconto di Domenico: ogni gesto, ogni postura, ogni particolare dal colpo di tosse e i conati ai pugni davanti al viso sono la misura di quanto questo artista sia davvero cresciuto, maturato, frase quanto mai abusata ma assolutamente perfetta.
Domenico è vivo.
Ricordate questo particolare
.

Foto di Federica Zingarino

Foto di Federica Zingarino

L’archivista Persichetti rimpiange, ora, la sua beata ignoranza: era meglio non sapere, si è più felici ignorando certe cose, senza capire.
Perché se “la guera è guera”, come puoi giustificare tutti quei morti ammazzati in tempo di pace?
Perché una volta che hai trovato l’ago nel pagliaio, qualcosa ci devi fare… ci devi ricucire gli strappi della verità, quanto meno per quel che puoi.
Quindi, una volta che vieni a conoscenza di una storia vera, o meglio della verità su una storia o sulla storia, sei tenuto a raccontarla.
Si chiama Recupero della Memoria.

Come la memoria che andrebbe tributata a Geppino Micheletti, “padre distrutto, medico encomiabile, per l’Italia eroe… dimenticabile”, raccontato dallo Spirito delle Masserizie in una delle scene forse più strazianti dello spettacolo, quella della strage di Vergarolla, in cui una bambina del coro divide la scena con Simone ed incarna tutte le vittime mai conosciute di un attentato di cui in madrepatria quasi nessuno ha mai sentito parlare: questa bimba merita ogni singolo applauso non solo per la sua bravura, ma perché mentre lo Spirito racconta non si può fare a meno di vedere in lei ogni singolo bambino che ha perso la vita su quella spiaggia, ogni singola vittima, e quando s’incammina tenendo per mano Simone “sulla via dell’esodo” guardandolo con quell’espressione ti sembra abbia il viso di ogni bambino che, con fiducia e speranza nascondendo la paura, guardava i propri genitori prima di imbarcarsi chiedendo “dove mi porterai, adesso? Che vita mi darai? Cosa succederà?
Il momento più commovente ed emozionante di tutto il Magazzino 18 triestino, che ancora mi porta alle lacrime al solo ricordo.
VergarollaProvaGenerale

Ecco quindi il momento dell’esodo, con immagini d’epoca dalle teche Rai ed il bisogno di chiodi, il martellìo incessante per tutta Pola ed il Toscana “grande nave bianca”: è il momento in cui “Coréva andar pel mondo”, come nel brano in dialetto istriano di Piero Soffici in cui Simone si destreggia davvero bene con la pronuncia a lui non poi così familiare, ed è il momento di raccontare davvero i perché ed i percome, le scelte d’andare o di rimanere, tutto ciò che spinse gli esuli a partire e ciò che non fa quadrare i conti al Persichetti, che archivia tutto, pure i disastri!
La differenza tra l’esule e l’emigrato, che quando torna sia che abbia fatto fortuna o meno ritrova famiglia e paese mentre all’esule glieli spostano, paese e famiglia, va raccontata, come va raccontato il modo in cui gli esuli vengono accolti in Italia: a suon di insulti e sputi.
A suon di “Fascisti!”.
Accolti in “ex fabbriche, ex campi di prigionia, ex manicomi.. insomma, tutte ex schifezze!”
Se immagino di passare magari da una casa vista mare ad una ex caserma vista muro, non fatico a credere che un grande polesano come Sergio Endrigo s’augurasse “d’essere un albero che sa / dov’è nato e dove morirà”.

Altro pezzo di bravura per l’attore Cristicchi ed altro momento di forte impatto emotivo è il racconto dell’esule Franco, matto.
Visionario, allucinato, spaventato, dolce, ci racconta del treno bloccato a Bologna dallo sciopero, indica con mano tremante le bandiere rosse del suo uomo nero, ci svela di padri suicidatisi con l’alcohol, di madri uccise da corde ed ulivi, di odori che non possono essere lavati via e di coperte come muri.
Ci parla di Marinella: piccola, un anno appena.
La sua storia va raccontata, la sua memoria ricordata.
C’era una delle sue sorelle, in sala, si saprà poi: ha visto la sua fotografia, l’unico ricordo rimasto finora di Marinella, proiettata sullo schermo commuovere 1500 persone in una volta sola ed ora sa che non verrà dimenticata, come non verranno dimenticate tutte quelle madri e quei padri uccisi dalla malinconia, impiccatesi o avvelenatisi sorso per sorso da una bottiglia, tutti quei padri con lo sguardo fisso altrove, ad un punto nel vuoto pensando ad una terra non più loro e ad un cuore lasciato dall’altra parte del mare.
FrancoEsule

Restano i Rimasti, italiani marchiati dall’infamia d’esser esuli in casa propria, “fascisti immaginari, comunisti rinnegati” che si son visti cambiare il mondo attorno ed han dovuto forzatamente cambiare per adattarsi ad esso, ma rimanendo quello che son sempre stati: italiani.
Sempre di meno, sempre più difficilmente, ma sempre italiani.
Ed arrivano i duemila monfalconesi del contro-esodo, lavoratori di fabbriche e cantieri partiti alla volta della Jugoslavia con nel cuore il sogno della Democrazia Proletaria e che si sono invece trovati a fare i conti con un comunismo che non li riconosceva come compagni, ma come nemici del popolo da “rieducare” dopo l’espulsione del Partito Comunista Jugoslavo dal Cominform.
Tanti italiani si son trovati, così, nel gulag in mezzo al mare di Goli Otok, l’Isola Calva: un campo di prigionia in cui i prigionieri erano al tempo stesso vittime e carnefici, dove i “dissidenti politici” vennero internati fino alla seconda metà degli anni cinquanta quando da noi si finivano di pagare le rate delle prime Fiat 500 Topolino, si ballava nelle balere ed il Festival di Sanremo era già passato dalla radio alla televisione.
Al sogno di questa “classe operaia” è dedicato il secondo brano cantato con il coro dei bambini, davvero d’effetto sia all’ascolto grazie alla FVG Mitteleuropa Orchestra diretta da Valter Silviotti, responsabile delle atmosfere incredibilmente coinvolgenti che permeano tutta la rappresentazione, sia visivamente parlando.

Il preciso Persichetti ha terminato l’inventario, ha contato tutto, anche li sorci, eppure il totale non gli risulta: quel che gli risulta è il dolore di tutta quella gente, è il rispetto che bisogna portare ai morti, è il numero 18 che nella Smorfia significa Il Sangue.
Persichetti archivia tutto, tranne una pratica che però vale per trecentomila, ed è per questo che scrive alla signora Federica Biasiol, figlia di Biasiol Ferdinando, che le masserizie appartenute a suo padre sono state ritrovate al Porto Vecchio di Trieste, nel magazzino numero 18, dove giacevano da più di sessant’anni e sarà premura del Ministero degli Interni della Repubblica fargliele recapitare il prima possibile.
Con tante scuse.

L’ultimo brano chiude lo spettacolo come meglio non potrebbe, ricordando le persone di cui si sono raccontati brandelli di vita e facendo presente che lo Spirito delle Masserizie “non ha un nome, ma potrebbe averne cento, come le vittime di questa storia, lui porta il nome di chi non conosce nessuna vittoria”, potrebbe averne milioni come tutti i profughi di qualunque terra, sfuggiti a qualunque guerra, povertà, odio.
Lo Spirito delle Masserizie potrebbe chiamarsi Memoria, perché per coloro che non conoscono vittorie basterebbe essere ricordati senza che il loro dolore ed i loro drammi vengano sfruttati e strumentalizzati.
La lunga, lunghissima standing ovation che segue le ultime parole e le ultime note sembra non voler mai terminare, viene interrotta dopo più di dieci minuti – c’è chi dice più di venti ma ero troppo occupata ad applaudire per cronometrare – dalle parole del regista Antonio Calenda sul ruolo del teatro nella pietas e l’augurio che Magazzino 18 venga rappresentato in quante più città possibile, in modo che il grandioso lavoro da lui diretto sul testo di Simone Cristicchi e Jan Bernas possa diventare memoria di quante più persone si riesca, persone che – aggiungo – uscite da teatro avvertiranno il bisogno di conoscere, sapere, informarsi su quello che fino ad un’ora e quarantacinque minuti prima ignoravano, quasi vantandosene prima, ora vergognandosene anche un po’.
Come il Persichetti.

Verso l'esodo

Non è un’offesa che cede al rancore,
non è ferita da rimarginare
è l’undicesimo comandamento:
non dimenticare”
.

[Loh]

  • C’ero anch’io tra i tanti che l’hanno applaudita oggi pomeriggio al teatro Rossetti a Trieste. Bellissimo!! Un’unica curiosità: ha tratto qualche spunto dal libro ‘Quei giorni di Pola’ di Corrado Belci attinenti l’attentato di Vergarola e il medico-eroe? Sono la figlia di Corrado Belci e papa’ha raccontato a noi e poi scritto sul suo libro dell’episodio. Sarebbe una soddisfazione morale per noi famigliari. Grazie Maria Luisa Belci

  • La sua fonte è “Ci chiamavano fascisti, eravamo italiani” di Jan Bernas, che è coautore del testo teatrale, in cui viene trattato anche il medesimo argomento.
    Non escludo tuttavia che, nei due anni di ricerca seguiti alla lettura di questo testo e serviti a preparare lo spettacolo, sia venuto a conoscenza ed abbia potuto leggere anche l’opera di suo padre. 🙂

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