Album di famiglia,racconti per voci e suono

La recensione di Fabrizio Croce

Mi avevano detto che il romanzo da leggere quest’anno era “Limonov”,biografia romanzata di un controverso uomo politico russo dalla vita quantomeno avventurosa , sulla soglia pericolosa che divide l’anarchico dal delinquente ,l’eroe anticonformista dal criminale di guerra,lo scrittore maledetto dal romanziere pornografico.
Poi il 14 febbraio,in una data incorniciata dalle frasi dei baci perugina e dalla celebrazione- ormai più ad uso e consumo del marketing che realmente sentita sul cuore e sulla pelle-del sentimento amoroso vado a comprare,pieno di aspettative,convinto di prepararmi ad un ascolto e sintonizzato solo sul canale musicale, quello che ho scoperto essere per me,finora,il vero romanzo dell’anno.Solo che con mia grande sorpresa il romanzo in questione è un cd ,Album di famiglia, e il romanziere è un cantautore, Simone Cristicchi.

In realtà non dovrei parlare di romanzo, ma di brevi racconti per suono e voce, per altro anche molto diversi tra loro per stile,contenuto ,suggestioni, il cui collante mi sembra essere la capacità di portare altrove,di permettere a chi ascolta di farsi uno spazio nella fantasia,nell’immaginazione ,nel ricordo, di offrire la consapevolezza che siamo esseri incompleti,fragili,emozionati e la consolazione che la creatività può trasformare il peso della vita in una leggerezza profonda,come un abbraccio o una carezza, antidoto alla brusca indifferenza o all’emozione artefatta di tanta musica pop che si consuma e non si attraversa.
Simone Cristicchi è qui,dentro questo disco, in carne e ossa, esposto al quadrato nel raccontare tanto le storie che gli stanno più a cuore, quanto l’emozione completamente emersa,cantata,dichiarata come per affermare la proprio umanità e farsi ascoltare tanto dal cuore che dal cervello , per una volta chiamati ad integrarsi, a sentire e comprendere il senso di un’esperienza artistica e umana.
Album di famiglia è un’opera estremamente privata ed intima che di conseguenza diventa assolutamente universale e profondamente umana.

È così che è possibile raccontare l’amore attraverso il senso di incompletezza in Mi manchi, usando un elenco di immagini che volutamente passano dal rasentare la banalità(il cacio senza maccheroni) a toccare il paradosso(lo Yeti senza il ghiacciaio) fino ad arrivare al simbolico(il peccato senza il perdono),come se Simone stesse parlando contemporaneamente a tutte le età della vita e del pensiero,dall’infanzia fino alla maturità e alla vecchiaia.
Mi manchi apre questo album di famiglia ma ne segna e ne svela anche l’andamento,l’indole….in un verso Cristicchi,parlando di questo amore,dice che lo nasconderà, “Perche il mondo non veda,perche tu non ci creda” , ma è proprio l’amore declinato secondo diverse forme ed esperienze che vive, senza riserve,provocando un dolce,tenero turbamento,in molte canzoni: in due casi, “Canzone piccola” e “La cosa più bella del mondo” si racconta l’amore rivolto alle persone significative della nostra vita,e poco importa sapere chi siano i reali destinatari nella vita dell’autore: ognuno può riconoscersi in una frase, in un pensiero che dice “Dal dolore ho imparato a non fingere” oppure “Dalle occasioni ho imparato a non perderle” e chiunque condivida la sua esistenza con un compagno o una compagna di viaggio può prendere in prestito un’espressione come “Tu non avere mai paura,non sentirti persa,è solo vita,amore,che ogni giorno ci attraversa..”

Siamo invitati a credere nell’amore, che è un amore calato spudoratamente nella quotidianità,nella verità,liberato da scorie intellettuali ed ideologiche,che si manifesta nelle storie che si scelgono e nel come raccontarle:così Laura,”il nome di una donna come tante”, è il racconto pieno di amore e compassione della Stella spenta e dimenticata di Laura Antonelli, dove lo smascheramento dei meccanismi brutali dello Star system(“le tue curve date in pasto alla gente,il tuo corpo da vendere al miglior offerente”) intreccia l’indignazione alla compassione(“questa sera vorrei darti una carezza”); Anche Magazzino 18, che è il nome di un luogo non come tanti,l’enorme deposito situato nella zona del Porto Vecchio a Trieste,dove sono raccolte le masserizie mai ritirate degli esuli istriani,fiumani e dalmati,è attraversata da un amore che diventa struggente rimpianto, “malinconia per una terra che non è più mia”, ricordo di un padre,”Di un uomo gigante,della sua immensa tenerezza capace di sbriciolare montagne,a lui bastava una carezza”…(ancora SEMPLICEMENTE una carezza).La memoria che passa attraverso l’amore e non si insabbia nell’ideologia,la forza dei legami,del sangue e della terra che acquista un respiro dentro il quale è possibile ascoltare l’eco delle voci di un massacro,un esodo, un popolo rimossi, stipati come i loro oggetti dentro un luogo fisico,trasfigurato simbolicamente come “…una specie di cimitero,tra massenzie abbandonate e mille facce in bianco e nero”.
C’è poi il tema che ha attraversato tutto il senso di quest’esperienza umana e artistica fino a questo momento e che si è intrecciato sempre con una forma di amore nei confronti della marginalità, del disagio,della sofferenza rovesciato però, secondo le regole del mondo capovolto di Alice nel paese delle meraviglie, nel paradosso e nell’ironia e,ancora una volta,affidato in punta di penna all’arma più rivoluzionaria e potente: l’immaginazione.
Così il tabù della morte si trasforma in un momento magico,una sospensione,una pausa o meglio una scuola serale,tipo un corso di aggiornamento dove si impara ad amare la vita in ogni singolo momento, in una canzone che fin dal titolo, La prima volta che sono morto, cambia quell’idea monolitica che fa cosi paura perche definitiva e irrevocabile , in un morbido,fluido sentimento dolceamaro di nostalgia e rimpianto che forse ha molto più a che fare con la vita(Quante cose avrei voluto fare che non ha fatto..).

Se si può immaginare la morte in un modo meno spaventoso e punitivo, un happening dove può capitare di sentire più vicini e familiari personaggi che,dalla Storia che hanno contribuito a segnare, sono entrati nelle storie e negli immaginari individuali(e qui nel panorama post mortem ci sono Chaplin,Pertini e Pasolini), con altrettanta forza e tenerezza in Scippato è possibile cambiare il corso del proprio destino dalla nascita(Ci tirerò una fonda, e cambierò i piani di volo alla cicogna),dove si comincia da una mancanza o, meglio, da un abbandono, per giungere a ringraziare,per contraddizione e quindi con un e/affetto ancora più intenso e toccante, la vita ogni giorno per quello che ho avuto e l’amore che ho dato.
E se la società organizzata intorno al buon senso comune, elegante e curato nella forma quanto barbaro nei contenuti e nelle espressioni, ha sempre ricacciato e allontanato chi non rispondeva ai suoi canoni e non obbediva ai suoi codici ,lontano dagli occhi e dal cuore, ci ha pensato Cristicchi a riportare questa varietà di essere umano al centro dell’attenzione,partendo questa volta dal cuore di una lingua, il dialetto romanesco,che appartiene alla sua identità di romano e che ormai pratica assiduamente da due anni, portando in turnè il monologo teatrale Li romani in Russia: Così I matti de Roma diventa un affresco,un omaggio, una celebrazione di un piccolo popolo nel popolo, accolto nella scanzonata allegria,nel calore,nella casa col fuoco sempre acceso del dialetto, dove la pazzia è energia vitale, libera e liberatrice, movimento che riempie e contamina, la smorfia un po’ sdentata de le strade de città.
Ma la marginalità non si estende solo in orizzontale su questa terra e anche questo Simone,grazie allo spettacolo che sta portando avanti con il Coro dei minatori di Santa Fiora,ce lo sta dicendo da molto tempo: In questo disco torna a scendere nel sottosuolo in Senza notte ne giorno, con un amore che supera la compassione perche si identifica in maniera appassionata e completa nei pensieri e nelle immagini di un minatore, con parole spiazzanti,disarmanti per semplicità e precisione(Volare è un sogno che gli uomini hanno, scendere invece è soltanto un bisogno che non prevede ritorno..).

Abbiamo visto che l’amore può essere consapevole,doloroso,malinconico,struggente,tenero ma questo album ci ricorda pure che possiamo guardare alle cose che amiamo con ironia vestita da amarezza e che la carezze possono anche diventare dei pizzicotti: Le sol Le Mar ,contro-inno al bel paese condito da una babele di suoni,dialetti e lingue dove la consolazione è più che mai inganno derisorio(Magari nun avremu legalitè,menu che menu credibilitè,ma ce piace tantu l’aria che c’è)
e dove si ride amaro nello spirito, recuperato più qui che da tanto cinema italiano contemporaneo, della commedia all’Italiana(Lu vinu che abbonda,la mora,la bionda,la barca che affonda) .
Una dimensione esplicita ancora di più in Cigarettes, dove siamo convinti(e rassicurati) che si stia parlando di quelli che noi oggi chiamiamo stranieri e immigrati, prima di scoprire,con un contrappasso che al comico abbina il tragico,che si sta parlando di noi o,meglio,di come eravamo secondo il Congresso americano nel 1912.
A questo punto,trasportato dal vortice di emozioni e pensieri che ognuno di questi piccoli racconti mi ha suscitato, giungo al crepuscolo con un brano Il Sipario,che è una struggente(parola forse abusata per questo album,ma che acquista veramente un altro valore nella definizione del senso di certi testi..) s ode al teatro,al palcoscenico,alla sua morte (Sul cartellone mai più la magia delle favole,solo polvere agli angoli e lo scricchiolio delle tavole..) e alla sua ciclica,inesauribile vitalità(Si aprirà ancora il sipario,ci sarà il tutto esaurito,e la meraviglia negli occhi ritornerà..)
Un’ode che è forse anche metafora della vita e della morte,di come l’una e l’altra si intersecano,si succedono e si toccano e che quell’immagine tangibile,concreta eppure così magica e impalpabile del teatro rende indelebile,come una cartolina che non sbiadisce mai…

Il finale(apparente) Cristicchi lo affida a una composizione del poeta romano Mauro Marè dove torna il dialetto,il senso di tornare alla propria origine,alla propria verità, perche quando si parla di vita e di morte si è spinti da una forza che ci fa piantare i piedi per terra(o anche sottoterra come direbbe Simone) e al tempo stesso innalzarci sulle vette del pensiero e dell’emozione: prendendo in prestito i versi di Testamento ,Cristicchi ci dice che la vita è un soffio,un mozzico,un sospiro,cò la morte diventerà un respiro,un profumo,nà brezza, nà canzone…..Ma il finale, appunto, è apparente e con un colpo di mano atteso quanto inaspettato,impossessato probabilmente da Rufus,il suo alter ego beffardo provocatore più che ironico e raffinato chansonnier, nella ghost track di chiusura Cristicchi ci fa passare dalla tetra allegrezza,la dolce malinconia e l’amara riflessione al più brusco dei ripensamenti: Non ti aggrappare dunque a questa vita,che è una finestra aperta sul dolore, fortuna che finisce,fortuna che si muore….Nessuna consolazione o possibilità di immaginazione , ma una visione materialista e lugubre della vita come sofferenza ed espiazione che la cornice musicale del Canto Gregoriano sapientemente associa alla cultura cattolica,che in buona parte spinge a vedere la vita come sofferenza ed espiazione e nella morte una liberazione.
Una chiusura che sconcerta e non pacifica,al contrario pone nuovi interrogativi e non esaurisce dei temi di tale portata dentro le parole,ma ci offre l’invito a cercare,a continuare immaginare dentro di noi.
Anche se il pensiero che viene voglia di portarsi via prima di andare al letto è quello che appare sul retro del booklet del cd: Avere lacrime vuol dire amore; amore vuol dire lacrime.Avere famiglia significa pace; pace vuol dire famigli. Lo ha scritto Tommaso,il figlio di Simone,cinque anni, confermando che era proprio vero quello che diceva Elsa Morante nel titolo di un suo libro a cui mi piace associare quest’album: Il mondo salvato dai ragazzini.

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