Da Teatroteatro.it

“Il volume gracchiante delle radio diffonde, per i rioni della Roma del ’41, la retorica solida e ipocrita del fascismo. Ci sono odori, musiche, case che oggi non esistono più; c’è la scanzonatezza dei romani che invece è sempre uguale, anche se è caduta pure lei nel trucco brutto di queste camicie nere, con il braccio alzato e teso per sentirsi forti, popolo unito e pronto all’azione. Chissà chi ci crede davvero; chissà chi invece pensa che è meglio stare zitti, anche se quel tipo lì dal balcone di Piazza Venezia fa proprio ridere, perché ‘sta città, Roma, in fondo, le ha viste proprio tutte, e figurati se prima o poi non se ne va pure lui, tutto azzimato a parlare sempre d’Impero, figurati, e mica è il Papa. Chissà chi pensava una cosa e chi l’altra, fra i paggetti della Cecchignola, un gruppo di ragazzi qualunque fra i duecentoventimila spediti dal fascismo a morire nelle valli ghiacciate della Russia.

La loro storia è raccontata dal commovente poema in romanesco di Elia Marcelli, un poeta e un uomo di cinema (partecipò al neorealismo) troppo dimenticato, fondatore del primo movimento pacifista italiano ed egli stesso reduce dalla campagna in Russia. Il suo poema si apre, non a caso, con un elogio del Belli: Gioacchino e i suoi sonetti impregnati dell’atmosfera dei vicoli romani e del popolino; quanto è distante invece la Provvidenza di Manzoni, confortante solo per i ricchi. Se oggi possiamo ascoltare le parole di Elia, lo dobbiamo soprattutto a uno straordinario Simone Cristicchi: non solo perché si è impegnato a promuovere un autore sconosciuto ai più, ma perché si è messo ulteriormente in discussione prestando il suo stesso corpo e la sua stessa voce a Li Romani in Russia. E lo ha fatto con una qualità sorprendente: aiutato solo da pochi oggetti scenici, con funzione blandamente descrittiva (un mantello, un fucile…), Cristicchi disvela nel monologo una notevole capacità polifonica ed evocativa, snocciolando con la sua ampiezza vocale una serie di personaggi che, anche quando sono accennati solo per rapidi tratti, attingono a un’intensità rarissima e vitale. Molto a suo agio con la prosodia del romanesco, il cantautore prestato al teatro mostra anche una buona abilità nella padronanza del ritmo, dosando pause e stacchi senza mai perdere la tensione di fondo e l’attenzione del pubblico: in questo, è senz’altro aiutato dal lavoro drammaturgico di Marcello Teodonio, autore dell’adattamento. L’asciutta regia di Benvenuti ci accompagna col suo montaggio lungo la marcia sprovveduta dei soldati italiani, dall’ingenuità goliardica dei primi giorni all’ubbioso arrivo del Generale Inverno: da quando inizia a cadere la neve, la severità senza occhi del Generale non lascerà scampo a quei ragazzi, trasformandoli -complice la reazione russa- in carne da macello. La carneficina, i corpi schiacciati sono evocati dall’autore con agghiacciante realismo: chi riesce a tornare a casa ha esperito quella che Agamben chiamerebbe nuda vita, la semplice sopravvivenza biologica. Poi, si vorrebbe solo dimenticare. Oppure, con forza, testimoniare.”

Una bellissima recensione di Michele Ortore

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